Ascolta la storia di Blu
Ascolta a questo link il podcast con la storia di Blu realizzato dai ragazzi e dalle ragazze dell’ITSOS Marie Curie di Cernusco sul Naviglio.
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Non avrei mai immaginato di entrare in un centro antiviolenza. Davanti a me c’è una giovane donna, una volontaria, mi offre una caramella…aspetta che io parli, che apra quella porta che tenuto serrata troppo a lungo. La cosa peggiore è che non capisco perché, perché me lo sono lasciata fare, perché me lo sono lasciata dire, perché non me ne sono andata prima. Non lo capisco.
Me lo ha presentato un’amica, era un suo collega. Mi sembrava a posto, mi pareva uno con cui poter chiacchierare, con cui poter uscire a cena, con cui andare al mare. Mi ha portato al mare due volte perché diceva che il mare lo faceva stare bene. E siccome faceva questo effetto anche a me ho pensato che avrebbe potuto essere la mia anima gemella. L’ho creduto davvero. Prima di andarci a convivere avevo notato dei piccoli gesti strani, che un po’ mi inquietavano. Cercavo di non farci caso, di non darci peso. Una stretta al braccio troppo forte, le richieste di inviargli le mie foto mentre stavo con le amiche, così, solo per vedere che sei tu la più bella, le telefonate che iniziavano sempre con dove sei e mai con come stai. Mi sono trasferita da lui perché era ormai tempo, avevo già 30 anni, un lavoro, la mia autonomia.
Il primo giorno a casa sua lo abbiamo passato a divederci gli spazi, questo spazio è mio, non puoi toccare nulla, è importante che le tue cose e le mie rimangano separate. È stato un errore mio, mi aveva messo in guardia e io non avevo capito bene. In casa mia ero abituata diversamente, nessuno mi avrebbe rimproverato se avessi poggiato un libro o un paio di jeans sulla scrivania o sulla sedia di mio fratello. Tantomeno mio fratello che era un gran disordinato. Cosa ti avevo detto eh? Questo è il mio tavolo da lavoro, non devi poggiarci niente. Ma non lo ha detto così, lo ha detto male, mi vergogno a ripeterglielo. Ero stranita da quelle parole, pensavo fossimo uguali, pensavo che il suo modo di vivere fosse come il mio, che le cose che gli avevano insegnato fossero le stesse che avevano insegnato a me, il rispetto, la condivisione, la libertà personale.
Quella notte ha dormito sul divano ma la mattina seguente mi ha preparato la colazione, mi ha tenuto stretta, mi ha detto che sentiva per me un sentimento profondo, nuovo, mai provato prima. E io mi sono sciolta in quell’abbraccio, in quell’emozione che mi dava i brividi. Le cose però alla fine precipitavano sempre: la prima spinta me la ricordo bene, eravamo tornati da una cena a casa di amici. Mi ha spinto con forza dentro casa dicendomi che avevo fatto la gallina tutta la sera. Che sembravo una escort piuttosto che la sua fidanzata, non ha detto escort. Ma mi vergogno a ripeterlo. Lui mi dice che senza di me non può vivere né io senza di lui. Da quando stiamo insieme ho perso tante amicizie, molte delle persone che frequento a lui non piacciono.
Una sera per dimostrarmi di amarmi comincia a togliersi i peli della barba utilizzando una pinzetta. Io gli dico di smetterla, non ho bisogno di nessuna dimostrazione e questa poi mi pare davvero sciocca. La parola sciocca associata a lui è un affronto, questa sera è nervoso, più nervoso del solito. Afferra i lati del lavandino e pare volerlo scardinare, poi si volta e con la mano mi circonda i lati della bocca e stringe, stringe forte. Non riesco a parlare e così lo allontano da me spingendolo via. Lui come una molla si rilancia su di me, mi prende per le spalle premendomi al muro. Non riesco a muovermi, sono paralizzata è un fascio di nervi.
A quel punto lascia la presa, impreca ed esce di casa. A tarda notte mi manda un messaggio, mi spiega che ci sono delle cose che lo fanno andare in bestia, usa questa espressione e io sento che è proprio vera, che forse per la prima volta sta ammettendo il suo problema, si sta confidando con me. I giorni seguenti sono strani, calmi, senza imprevisti. Poi arrivano le vacanze, lui io e la sua moto. Giuro che ho sperato che non fissero mai. Siamo stati bene, lui ed io, lo ha ripetuto spesso. Tu ed io. Sono davvero esistiti? Come posso paragonarli a ciò che è successo dopo? Cosa è successo dopo?
Ti ammazzo, hai capito che ti ammazzo, quella zingara in casa mia non ci deve entrare. Cos’è che non capisci? Esco mezz’ora e ti trovo qui con quella.
È un’amica, passava di qui e ha suonato. Cosa c’è che non va?
Sei tu che non vai, che fai quello che vuoi come se non ti importasse di ciò che penso io. Hai capito che ti ammazzo se la ritrovo qui? Tu sei pazzo. E ancora una volta sbaglio, dico la cosa scorretta nel momento meno opportuno. Mi si scaglia contro, mi attacca al muro, mi prende la testa e la picchia al muro con forza, una, due volte.
Sono tornata diverse volte al centro antiviolenza prima di lasciarlo, ho avuto bisogno di raccontare ancora, di ripetere, di analizzare ogni parola, ogni gesto, di dare un nome a ciò che succedeva. Manipolazione, ossessione, violenza. Ho dovuto comprendere perché le mie parole venivano travisate, perché non riuscivo a spiegare come mi sentivo, perché quel legame persisteva nonostante gli insulti, le umiliazioni, le aggressioni. Io inchiodata lì, come se non fossi più in grado di prendere decisioni autonome, come se lui fosse indispensabile nella mia vita, ha aperto finalmente quella porta. Mi fa meno male ogni giorno che passa, ogni giorno fatto di 24 ore, la prima, la seconda, la terza … ogni ora che passa mi aiuta a sentire che sto riprendendo in mano la mia vita.