La “fase due” dopo il lockdown

Due mesi che nessuno si sarebbe mai aspettato.

Due mesi d’isolamento, di reclusione in casa, di convivenza e/o solitudine ininterrotte, di lutti, di riscoperta, magari di violenza…due mesi in cui sono salite in superficie numerose emozioni, legate alle difficoltà del presente, ma anche al passato.

Due mesi di lockdown per l’epidemia da coronavirus sono passati.

E ora siamo approdati a un nuovo passaggio, quello in cui scopriremo che cosa significa convivere con l’epidemia.

Chissà quali nuove emozioni si stanno muovendo dentro di noi: paura? gioia? rabbia? tristezza? sorpresa?

Qualcuno si starà confrontando con la paura per la possibile minaccia all’incolumità, propria e dei propri cari.

In questa nuova fase, dovremo continuare a evitare assembramenti e contatti fisici, ma saremo comunque immersi in un contesto sociale più partecipato, con città più frequentate: guadagneremo spazi di libertà ma magari diminuirà un po’ la percezione di sicurezza.

Qualcuno si potrà chiedere cosa può significare sentirsi un potenziale veicolo di contagio per la propria famiglia… una domanda che si sono già posti ad esempio i lavoratori della sanità, che sono stati a stretto contatto con una condizione difficilissima.

Qualcuno si starà confrontando con la rabbia e il bisogno di materializzare questo agente infettivo impercettibile. Non riuscendo a immaginare qualcosa di invisibile come un virus, è più facile pensarlo come un fluido che passa da persona a persona. Siamo portati a presumere che chi è più vicino a noi abbia il nostro stesso fluido, mentre tutti gli altri ne hanno uno diverso. L’abbiamo visto con i cinesi all’inizio: probabilmente vivono qui da anni e comunque non erano in Cina prima che iniziasse l’epidemia, ma per il fatto stesso di essere asiatici si è dedotto che fossero più esposti al virus. Un ragionamento totalmente antiscientifico, ma che corrisponde al sentire comune” (A. Toscano).

In realtà, questo tempo ci può aiutare a comprendere come individuo e comunità siano interconnessi: prendendosi cura della nostra salute ci prendiamo cura della comunità e viceversa.

Dalla nostra interconnessione dipende la nostra co-responsabilità (*Welfare Responsabile).

Sia a livello privato che pubblico, c’è sempre stato l’appello ad agire in modo riflessivo, facendosi carico delle conseguenze delle proprie azioni nei confronti dell’intera comunità, in modo particolare verso coloro che sono più fragili (e.g., gli anziani) e verso chi è in prima linea nell’assicurare i servizi di base (dai professionisti della salute ai dipendenti dei supermercati). Responsabilità significa anche “abilità a rispondere”, cioè vuole dire anche saper adottare comportamenti utili ad evitare il contagio (e.g., lavarsi le mani e mantenere la distanza sociale) e indirizzati a sacrificare il nostro interesse personale e individuale a favore dell’interesse collettivo (attraverso la riduzione della nostra mobilità fisica).

Oltre all’impegno dei singoli cittadini, anche molte aziende hanno dovuto sospendere le attività economiche e produttive nell’interesse sanitario comune e dei loro dipendenti. Chi ha potuto, si è riorganizzato prevedendo forme di lavoro in remoto per i propri dipendenti, processo che ha comportato un significativo sforzo di riorganizzazione, anche culturale. Per i genitori che hanno iniziato a lavorare da casa ad esempio, l’emergenza sanitaria ha significato dilatare il carico di responsabilità nei confronti dei figli e spesso la necessità di assumersi anche un ruolo attivo nel supportarli nei processi di apprendimento attraverso la didattica online.

Un esempio di interconnessione? Senza la disponibilità dei docenti, studenti e, spesso, anche dei genitori, ad acquisire in tempi record competenze nell’uso degli strumenti della didattica a distanza (e-learning), probabilmente la scuola si sarebbe fermata completamente. Questo avrebbe determinato ripercussioni non solo sulla possibilità di apprendimento, ma anche su quella dei più giovani di essere impegnati in attività in grado di ridurre i disagi legati all’interruzione delle relazioni sociali in presenza.

Recentemente, qualche genitore rimasto a casa in cassa integrazione ha anche lanciato la proposta di organizzare dei turni con altri genitori nelle stesse condizioni per gestire i bambini con giochi, passeggiate e compiti, in attesa che possano riaprire gli spazi istituzionali.

In sintesi, “L’emergenza può essere gestita se tutti giocano la propria parte, sapendo qual è il contributo di ciascun attore per il benessere della collettività” (*Lombi, Welfare Responsabile)

Che cosa ne pensi?

Ti vengono in mente altri esempi di interconnessione?

Hai qualche proposta da fare in questa direzione?

 

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